Giovedì 21 Novembre 2024
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Il 68% ha modificato le proprie strategie di approvvigionamento, aumentando le scorte e diversificando i fornitori. Emerge la preferenza verso filiere più corte.
Nel corso degli ultimi anni il processo di globalizzazione dell’economia mondiale ha evidenziato una battuta d’arresto: dopo un lungo periodo in cui le imprese hanno distribuito in tutto il mondo le diverse fasi della produzione per ottimizzare i costi, questa estrema frammentazione delle catene del valore ha mostrato la propria fragilità di fronte a shock esterni come quelli causati dal Covid-19 e dalle recenti crisi di natura geo-politica. Si sono così avviati fenomeni di accorciamento delle filiere produttive, indicati da termini come reshoring e nearshoring, che puntano a minimizzare i rischi di approvigionamento e i costi di trasporto.
Il focus realizzato dalla Camera di commercio di Bergamo sulla riorganizzazione delle reti di fornitura conferma l’elevata apertura internazionale della manifattura orobica, con il 78% delle imprese industriali intervistate (di almeno 10 addetti) che dichiara di avere effettuato transazioni non occasionali con l’estero nell’ultimo anno. Le imprese esportatrici (71%) risultano più numerose di quelle importatrici (54%), a fronte di una quota di fatturato estero che oscilla da alcuni anni intorno al 40%, dopo la forte crescita nel periodo 2007-2016.
Le esportazioni dirette al cliente finale rappresentano la modalità di gran lunga più diffusa tra le imprese industriali bergamasche per la vendita all’estero (90% delle risposte), mentre il 17% utilizza negozi propri o filiali commerciali all’estero, una quota comunque più significativa di quella evidenziata in Lombardia. Percentuali inferiori si registrano per le esportazioni in regime di subfornitura (11%) e tramite uffici di rappresentanza commerciale (9%), nonché per le vendite tramite filiali produttive (5%). Risulta infine marginale il ricorso a joint ventures o franchising.
Per quanto riguarda il fenomeno del reshoring vero e proprio, ovvero la tendenza delle imprese a riportare nel paese d’origine parti della propria catena produttiva che in passato avevano delocalizzato, la maggioranza degli imprenditori bergamaschi intervistati ritiene che non si tratti di un fenomeno passeggero né di scarsa portata, e che non si limiti per forza al manifatturiero, sebbene secondo i più riguardi prevalentemente le grandi imprese. Il 57% pensa inoltre che si tratti di un fenomeno destinato ad aumentare.
I fattori che potrebbero spingere in tal senso sono soprattutto legati ai tempi di consegna (36% delle risposte), ai rischi geopolitici (32%) e ai costi della logistica (30%), ma gli imprenditori non sottovalutano nemmeno i problemi di qualità riscontrati nelle forniture (29%) e le nuove tendenze di consumo che spingono verso il “made in” (15%). In tale contesto viene citata inoltre la crescita del costo del lavoro nei paesi emergenti (10%), fattore che riduce progressivamente la convenienza delle operazioni di delocalizzazione.
Commenta il presidente Carlo Mazzoleni: “L'aumento del costo della manodopera nei paesi asiatici annunciava già il tramonto di un’era, ma gli ultimi tre anni hanno seriamente messo in questione il modello di produzione basato su catene di valore transcontinentali. Non si può ancora parlare di grandi stravolgimenti, ma se prima la strategia era focalizzata su efficienza e crescita, sicuramente ora le imprese prendono in considerazione altri fattori, tra cui la ricerca di modelli sostenibili”.